Della missione letteraria e delle avventure mistiche che ho vissuto a Torino

Con entusiasmo pubblichiamo la traduzione del bellissimo racconto di Rafael Grillo, scrittore, giornalista, caporedattore della rivista “El Caiman Barbudo”, critico e curatore della Casa Editora Abril e autorevole rappresentante della cultura cubana, ospite del nostro Centro Studi in occasione della Fiera Internazionale del Libro di Torino.
Il racconto dei giorni che Rafael ha trascorso con noi è un regalo immenso alla nostra città che ci inorgoglisce come Centro Studi e come torinesi. A dispetto del breve tempo a disposizione, Rafael ha scovato gemme e “segreti” che ha saputo coniugare con maestria e leggerezza con il suo vissuto e la sua sensibilità di letterato cubano. Il risultato costituisce, secondo noi, una straordinaria fusione di esperienze che nessun torinese (e non solo!) può perdersi. Un regalo particolarmente gradito perché esattamente nel segno della “missione” che come Centro Studi ci siamo data: avvicinarsi, conoscersi, capirsi.

I. Del Corsaro Nero e del detective Mario Conde insieme per un giorno.
Ci sono viaggi che assolvono a obiettivi manifesti e piani segreti. Attraversare l’Atlantico e sbarcare nel nord della penisola italiana aveva come obiettivo la rappresentanza della Casa Editora Abril dell’Avana al 32° Salone Internazionale del Libro di Torino, grazie all’invito solidale del Centro Studi Italia-Cuba. Al contempo, il piano segreto aveva a che fare con le ragioni della mia infanzia ed era cominciato con alcune generiche ricerche su Internet e il ricorso a Google Maps per collocarne la posizione precisa.
Trovare il luogo in questione non è stato difficile. Appena arrivato sulle sponde del Po, vicino al centro della città, ho subito trovato l’ampio viale chiamato Corso Casale. Ho solo faticato a trovare la targa commemorativa che si doveva trovare sui muri della casa dove aveva vissuto il personaggio. Ironia del destino: al numero corretto (205), alloggia ora un’agenzia di una Banca piemontese. Ma sopra, all’altezza del secondo piano, ho finalmente potuto leggere il messaggio:
FRA QUESTE MURA, EMILIO SALGARI VISSE IN ONORATA POVERTA’ POPOLANDO IL MONDO DI PERSONAGGI NATI DALLA SUA INESAURIBILE FANTASIA, FEDELI A UN CAVALLERESCO IDEALE DI LEALTA’ E DI CORAGGIO. PERCHE’ GLI ITALIANI NON DIMENTICHINO LA SUA GENIALITÀ AVVENTUROSA E IL SUO DOLOROSO CALVARIO, LA RIVISTA “ITALIA SUL MARE” QUESTO RICORDO POSE.

L’incisione sulla targa termina con una data, “Torino, 30 aprile 1959”, e un veliero in rilievo che ricorda più il suo iniziale lavoro di marinaio che l’ambiente ricreato dall’immaginazione del padre del Corsaro Nero.
Dall’aldilà, non dal Cielo che i cristiani gli hanno negato, ma da un Nirvana in cui giacciono gli scrittori più popolari, cosa proverà Salgari per quel riconoscimento tardivo? ho pensato. Ottantaquattro romanzi non sono bastati a vincere la perfidia di alcuni editori ai quali scrisse “per i profitti che vi ho procurato, fatevi carico delle spese dei miei funerali”. Il suo felice matrimonio con l’attrice Ida Peruzzi si trasformò in un tormento senza fine per la malattia mentale della sua amata. Inseguito dalla doppia disgrazia, materiale e sentimentale, nel 1911 preferì martoriare il suo ventre con un harakiri per fuggire dal mondo alla maniera di un tormentato eroe romantico…
Il soffio di giustizia poetica racchiuso in quel tributo alla futura memoria dello scrittore, mi ha portato positivo conforto e scatenato la seguente sentenza personale: se il Corsaro nero e i suoi Fratelli della Costa non avessero navigato per affrontare Van Guld, il tiranno di Maracaibo; e se quella storia di vendetta e amore non fosse caduta nelle mie mani all’età di nove anni, per prima cosa non si sarebbe forgiata la mia passione per la lettura, e poi non avrei alimentato l’ambizione di diventare scrittore. Se quelle storie di pirati nei Caraibi non mi avessero incantato e poi portato verso gli altri libri dell’autore come quelli di Sandokán e Yañez alla riconquista di Mompracem, e quelli del Leone di Damasco in difesa di Famagosta, forse il mio aspetto più emancipato e litigioso non si sarebbe mai sviluppato. Senza aver provato l’adrenalina de I naufragi del Liguria, forse non proverei oggi così tanto piacere a camminare in terra straniera. Se non avessi conosciuto le avventure di Mirinri per salire al trono egiziano in Le figlie dei faraoni, gli enigmi di quell’antica cultura, con le sue piramidi, le mummie e i geroglifici, non mi avrebbero per sempre soggiogato. Insomma, a Salgari dovevo qualcosa che si era insidiosamente fissato nella mia esistenza da almeno quattro decenni, e ora andavo a partecipare a una fiera del libro nientemeno nella città in cui quell’uomo visse, amò, scrisse, soffrì e morì.
Vendere libri in spagnolo in questa fiera italiana è come propinare un Trattato di Semiotica Generale ai bambini di una scuola elementare. Questa è stata la sensazione che ho provato quando mi sono lasciato alle spalle la missione spirituale per dedicarmi al missione professionale che mi ha portato a Torino. Alla barriera linguistica si è aggiunto l’inconveniente che lo spazio contrattato con grande sacrificio economico dal Centro Studi per esporre la produzione editoriale del suo ospite cubano era ubicato all’estremità più remota e vicino alla porta di uscita di uno dei due enormi padiglioni che un tempo ospitavano la produzione in serie delle auto FIAT e oggi costituiscono lo spazio espositivo ribattezzato Lingotto Fiere. A peggiorare le cose, sebbene l’edizione 2019 avesse una intera lingua e non un paese come ospite d’onore, e precisamente lo spagnolo, i discorsi, le pubblicazioni e le offerte di libri in quella lingua si sono svolti in uno spazio un po’ scarso e chiamato Plaza de los Lectores situato nel padiglione opposto a quello dove si trovava il mio stand.
Un giovane tedesco che parla spagnolo mi intrattiene per un’ora parlando di Cuba e alla fine non compra nulla perché aveva acquisito molti libri – ha spiegato – durante i mesi trascorsi nell’isola per una borsa di studio. Transitano persone da sole, curiosano; qualcuno riesco a convincerlo chiacchierando con le poche frasi apprese in italiano dai nativi Pietro Guarini, Mariangela e Luigi, i miei partner del Centro Studi. Sono impaziente e i colleghi comprendono il mio desiderio di partecipare a Il Gioco del Mondo, titolo tematico fissato dagli organizzatori per sottolineare che la manifestazione sa bene che “viviamo in un mondo complesso”. Visitando i padiglioni, sono sorpreso (ma non così tanto) che c’è poco di Salgari. I ragazzi di oggi crescono, purtroppo, con meno esseri umani e meno territori del Corsaro Nero. Frequentano gli stand dei fumetti dove si trovano i supereroi della Marvel e i manga giapponesi; oppure sono affascinati da Harry Potter e altre favole di maghi bambini. Osservo i luminosi e ampi spazi dei grandi editori: Feltrinelli, Bompiani ed Einaudi; e quelli di case più modeste. Ci sono libri su tutto e per tutti: consigli per gli amanti dei gatti e per diventare vegani; le opere complete del filosofo Antonio Gramsci, il comunismo spiegato ai bambini e la vita sessuale di Carlo Marx; horror, giallo, fantasy eroico e genere noir; istruzioni per creare il tuo giardino bonsai, imparare a disegnare come un maestro fiorentino e addirittura come fare la cacca felici…

Proprio nel cuore della fiera del Lingotto vedo poi una torre cilindrica piena di ripiani che sale fino al soffitto. Babele + Biblioteca rievocano l’argentino Borges; ma anche l’italiano Eco, e all’altezza dei miei occhi c’è proprio Il nome della rosa. Prendo il volume e percepisco la forte attrazione del luogo dei fatti di sangue di quel romanzo, la Sacra di San Michele, non molto distante da lì, e mi prefiguro un’attività extra che devo assolutamente compiere. Poi assistito all’introduzione non convenzionale de Il silenzio della collina. Il suo autore, Alessandro Perissinotto, è professore di tecnica narrativa all’Università di Torino e ha optato per un mix di lettura e rappresentazione teatrale per attirare il pubblico con il suo duro romanzo sulla violenza contro le donne. Ho il privilegio di chiacchierare con lui per un po’, aiutato dalla simpatica Pilar, spagnola d’Aragona che mi ha fatto da interprete. Un incontro casuale mi mette di fronte a un Leonardo che non è da Vinci e pittore, che qui è promosso da una montagna di libri. Quando stringo la mano allo scrittore Padura, mi chiedo se in questo momento, sabato 9 maggio, siamo gli unici due cubani del cast di questo film di romani girato a Torino. L’uomo che amava i cani mi promette di essere alle 18:30 al lancio del suo romanzo poliziesco più recente in versione italiana: La trasparenza del tempo. Impossibile un fine giornata migliore di così: la ricerca di una Vergine rubata, nera come quella del Santuario della mia città natale di Regla, in compagnia del detective Mario Conde, uno dei personaggi letterari più accattivanti che l’età adulta mi ha portato.

II. DELLA CITTA’ DEI CORVI GRIGI CHE AMA I CANI (FLASHBACK)
Tutti i corvi dei film sono neri. I corvi di Torino sono grigi. Se lo dice lei, mia cugina, che è qui da cinque anni e chiama questa città “Torino” come i nativi, sebbene siano scure solo le piume delle ali e della testa, quei grandi uccelli che fuggono dalle foto sono corvi. Quando consulterò Wikipedia, più tardi, sarò certo che si tratta di una sottospecie chiamata “corvo cenerino”, ma oggi mi gusto la mia prima sorpresa in Italia, in Europa, in quel Vecchio Mondo che vedo per la prima volta con gli occhi di un esploratore del nuovo mondo, e già penso al significato di “essere qui”, di conoscere la realtà in prima persona e non da quello che raccontano in TV e nei film.

Accompagno Yanara a piedi lungo i trecento metri che separano casa sua in Corso De Gasperi dall’ingresso della scuola pubblica dove studia suo figlio. Poi mia cugina parte in bicicletta per il suo lavoro in un centro di assistenza privato per anziani e persone con disabilità fisiche e mentali, e per un po’ rimango nel parco lì vicino abituandomi ai dieci gradi di temperatura e pensando alla bellissima ed emozionante esperienza di ricongiungimento familiare. Dai suoi occhi luminosi, dal sorriso vivace e dall’entusiasmo con cui mi ha attirato nella sua Torino, deduco che qualsiasi attacco di nostalgia del tempo che fu e della patria può essere attenuato se la buona fortuna ti accompagna nella tua nuova vita.
Mia cugina ha studiato Medicina a Cuba ed è venuta qui quando a suo marito Yasser, fisico nucleare anch’egli formatosi all’Avana, fu offerto un contratto a lungo termine in un progetto del CERN (Consiglio Europeo per la Ricerca Nucleare), il più grande laboratorio di ricerca di fisica delle particelle di tutto il mondo. Ha visto il suo Fabio crescere sano fino a diventare il ragazzo di 10 anni bello e ben istruito che ora riscopro e con cui posso parlare in spagnolo perché lo capisce ancora, ma le cui risposte faccio fatica a capire perché il ragazzo ha scelto di esprimersi solo in italiano. Anche Yanara non ha motivo di lamentarsi, dal momento che ha trovato alloggio nel quartiere della Crocetta, una sorta di Vedado torinese con edifici di tre o cinque piani in architettura elegante, un confortevole appartamento in affitto con due camere da letto, funzionale alle esigenze della famiglia.

A questa, che sarà la mia “casa adottiva” per il tempo che trascorrerò a Torino, aggiungerò a mano a mano che le conoscerò, altre belle scoperte. Come Pulcinella, una pizzeria dietro l’angolo; le vicine fermate di mezzi pubblici e i mercati. Per ora, però, cammino senza meta, e nei miei primi passi solitari su un territorio sconosciuto non riesco comunque a sentirni estraneo, perché qui i passanti adottano una diversa norma di cortesia – un altro insegnamento – in cui il buon giorno è di rigore e viene concesso a tutti, non solo ai conoscenti. Non riesco nemmeno a sentirmi abbandonato come un cane perché questa è una città senza cani randagi. Ci sono molti cani, dovunque, di tutte le razze, ma sempre accompagnati. Accanto al padrone che fa jogging o sale sul tram; vicino al tavolo del ristorante o in braccio tra gli stand della fiera del libro. I padroni accompagnano i loro cani, o viceversa, in modo che il cane possa liberare i suoi escrementi in un’area riservata, corra nel parco e plachi la sete alle fontanelle di bronzo adornate con una testa di toro, dove anche gli umani bevono perché è acqua limpida e fresca che arriva dalle sorgenti della montagna.

Mi ritrovo nell’obiettivo della macchina fotografica una imponente – malgrado la distanza – vetta innevata, e scatto stabilendo che si tratta della più alta delle Alpi e d’Europa, il Monte Bianco. Dal Parco Cavalieri di Vittorio Veneto, chiamato anche Piazza d’Armi, assisto alla mattiniera attività di uomini e macchine che popolano la città prima che le strade si riempiano di gente, e all’improvviso mi assale un pensiero, ed è negativo. Un debole per i monumenti mi induce a fermarmi davanti a un piccolo ammasso di forme umane, dove una lapide reca venti nomi. Nassiriya, 12 novembre 2003: il luogo e la data cesellati mi rivelano il contesto e accetto il nobile gesto dei popoli di perpetuare i loro figli caduti in combattimento, ma mi indignano i governi che attraverso pretesti fallaci lanciano i loro sudditi all’invasione di paesi lontani. La scena di uno stagno con anatre colorate, i giovani collegati a Internet e gli anziani che prendono il sole mi allenta il disagio. Contemplo la nobile facciata dello Stadio Olimpico, sede del Torino Football Club da quando la ricca rivale Juventus si è costruita una “casa” propria. Prendo uno splendido caffè italiano e rinnovo le mie forze per infilarmi tra i banchi del mercato di Santa Rita.
Mi sarebbe piaciuto evitare il cliché dei cubani ammaliati dalla paccottiglia, ma sono un Damocle tormentato dalla figliastra che mi ha chiesto una maglietta dei Queen invece della leggendaria spada; e quando finalmente trovo l’ambito oggetto con la rock band alla moda, mi sbarazzo di un altro luogo comune, quello di un’Europa molto costosa, e pago un prezzo identico a quello che avrei pagato all’Avana. All’improvviso mi sento felice, anche se mi accorgo di essermi perso. Non disperarsi mai: that’s the question. La mappa di “San Google”, qualche messaggio a mia cugina e il lato di una chiesa gotica come punto di riferimento mi hanno rimesso sulla via del ritorno.

L’inizio di mattina mi sarebbe bastato per capire lo spirito di Yanara e iniziare a temere che, se avessi scritto di questo viaggio, mi sarebbe venuta fuori la cronaca di una confessione d’amore a Torino trasmesso dalla sua alla mia anima. Che le mie precedenti ossessioni: “una vera cronaca di viaggio è fatta di luci e ombre” e “bisogna disinnescare il cliché del turista affascinato” sarebbero state spazzate via dall’incantesimo che il suo sguardo ricco di sentimento avrebbe instillato nei miei occhi; e che il magnetismo che qualsiasi città arcaica della vecchia Europa diffonde, è intrinseco alla sua ricchezza di storia e cultura.
Il lato un po’ più oscuro sarebbe poi giunto nei giorni seguenti. Africani che sopravvivono ai margini vendendo ciondoli ai turisti. Zingari che dormono sotto i portici del centro. Un torinese che si lamenta che “Qui tutto costa caro” e io che rispondo: “E dove non costa caro?”. Una mattina in cui il traffico è più infernale del solito mi spiegano: “C’è lo sciopero dei trasporti, sono preoccupati per i licenziamenti e per la privatizzazione dell’azienda pubblica”. Volevo vedere la manifestazione, ma “no, sono a casa, semplicemente non sono andati a lavorare”, rispondono. E’ chiaro, l’utopia socialdemocratica dello “stato sociale” si disfa ai morsi dell’avidità neoliberista. L’afflizione di quel momento da parte della maledetta circostanza(1) del denaro da tutte le parti si dissipa da me – mi dispiace ora scriverlo – prima della magnifica visione della Mole Antonelliana.

III. DEI VANTAGGI DI AVERE LA MOLE ANTONELLIANA E UN MUSEO EGIZIO
Cosa sarebbe Pisa senza la sua torre pendente? E di Kuala Lumpur senza le Petronas Towers o di New York senza l’Empire State Building? Ogni città che aspiri alla fama deve avere la propria Torre Eiffel. Davanti a questo tipo di enormi costruzioni non c’è selfie che resista. E a beneficio della sua salute turistica, Torino ha la Mole Antonelliana.
Pochi giorni prima del mio viaggio in Italia si verificò il disastro della cattedrale parigina di Notre Dame, altro edificio emblematico, e per prevenire altri eventi di piromania dò la priorità al principale simbolo di Torino. Da qualsiasi punto della città è visibile la sua cupola curiosamente allungata e la torretta a punta che arriva all’altezza di 167 metri. Ma quando si arriva vicino all’edificio, concepito dall’architetto Alessandro Antonelli tra il 1863 e il 1889, mi dispiaccio del fatto che non abbia un Campo di Marte intorno invece di essere circondata da numerosi edifici del centro storico, così diventa impossibile trovare un punto dal quale riuscire a fotografare la Mole nella sua interezza.

D’altra parte, scopro immediatamente un vantaggio rispetto alla sua emula parigina: essendo un edificio robusto e completo e non una semplice impalcatura in ferro, dietro il frontone sorretto da colonne corinzie ospita la meraviglia del Museo Nazionale del Cinema. Però, prima di concentrarsi sui segreti del Cinema, bisogna comunque compiere il dovere del turista, ovvero salire sull’ascensore che va oltre la cupola della Mole e porta il visitatore fino a 85 metri, dove si apre una terrazza da cui si ammira tutta Torino e la catena montuosa delle Alpi. Lì ho potuto comprovare una sensazione personale, ovvero che alle spettacolari viste panoramiche di ogni luogo, quelle che le agenzie di viaggio vendono di solito come attrazione principale, preferisco la viste delle città a livello strada.
Il più grande piacere l’ho provato passeggiando tra gli oggetti di scena della felliniana Le notti di Cabiria, la replica de Lo squalo di Spielberg, i mostri progettati per l’Alien di Ridley Scott e la Vespa guidata da Nanni Moretti in Caro diario; a ritrarmi al fianco del leone della Metro Goldwyn Mayer e della bellissima Rita Hayworth; assistere a uno spettacolo di “ombre cinesi”, l’arte “trisavola” del cinema; riscoprire in versione 3D Il delitto perfetto di Hitchcock e apprendere come realizzò il montaggio della classica scena di Psyco; vedere i frammenti di Casablanca e un’infinità di film memorabili, esplorare le interrelazioni tra fumetti e cinema grazie a un’eccellente mostra temporanea; e gustare, infine, le tante chicche sorprendenti e i passatempi didattici offerti dal museo della Settima Arte.

Poche cose esercitano tanto fascino sulle persone quanto le mummie, e sebbene esistano tante città orgogliose di ospitare un’equivalente della Torre Eiffel, poche sono, al contrario, quelle che possono vantare un Museo Egizio, e Torino è una delle privilegiate. La sua collezione non sarà grande come quella del Cairo, ma è più grande di quella di Barcellona. Inoltre, detiene il primato della fondazione, 1824, all’interno di un portentoso palazzo barocco. Ho l’impressione che a scuola ci opprimano così tanto con la cultura dell’antico Egitto, dei loro incredibili successi e del mistero delle Piramidi, che nella testa di ognuno finisce per insinuarsi una sorta di “pallino” per gli egiziani”. Quell’entità inconscia è macabra e si diletta a vedere morti entrare in sarcofagi e vasi canopici per organi umani; esploratori di tombe faraoniche e l’ossessione di decifrare i geroglifici disegnati su obelischi o papiri; sognare di stare accanto a Iside e Amon, Horus e Bastet, l’intero pantheon degli dei antropomorfi rappresentato come giganti di pietra. Non faccio eccezione: mi ritraggo accanto al busto di una Thutmose e al negozio di souvenir del Museo Egizio compro il portachiavi della mummia a forma di gatto.

IV. DELL’INCONTRO TRA IL VEGGENTE E IL SOLDATO DI DIO NELL’ABBAZIA DEL NOME DELLA ROSA
Doveva essere fatto ed è stato fatto. Si dice che coloro che affermano di non credere a niente sono gli stessi che credono a tutto. Sembra che questo detto funzioni perché rinnovo la preghiera della protezione dei miei cari dell’aldiqua e dell’aldilà, accendo una candela alla scultura del martire Antonio Rosmini e alle statue dell’altare delle sante, da Brigida Patrona d’Europa a Maria Santissima, affrescate sulle pareti. Matita in bocca, per onorare il sermone del beato (L’uomo, nelle nostre civiltà, vive nel rumore: non sa più cos’è il silenzio. La vita nasce nel silenzio, l’uomo muore nel silenzio. Dio si incontra nel silenzio), cammino verso la cappella successiva e lì, di fronte al dipinto che mostra un biondo con ali e lancia in alto che punisce i tentati da Lucifero nel giorno del Giudizio Universale, mi trovo ad affrontare una crisi di fede. Posso presentare la mia supplica personale al comandante degli Eserciti del Signore se il mio nome proprio è quello di un altro arcangelo, specializzato nell’opera opposta di guaritore nella corte celeste? Va’ a sapere se questo dubbio è una trappola tesa dal demonio, penso, e offro la mia candela pellegrina a San Michele, che comunque gioca nella stessa squadra di San Raffaele. E’ stata la mia volontà, inoltre, che mi ha spinto dritto al centro dell'”Itinerario di Gerusalemme”, la linea retta che nacque nello Skellig Michael d’Irlanda, attraversa altre colline di culto del santo guerriero in Cornovaglia (Gran Bretagna), La Normandia (Francia) e qui attraversa la Sacra di San Michele sul Monte Pirchiriano e prosegue verso la Puglia (Italia), l’isola di Symi (Grecia) e culmina nella Città Sacra.

Per un momento giro ancora nella chiesa di questa abbazia fondata nel 987 d.C. Sotto il coro contemplo le tombe dei re che guidavano le Crociate, statue d’altare e dipinti con episodi della vita di Gesù. Accedo all’angolo delle offerte il cui pavimento è la roccia della cima della montagna, a 962 metri – assicura un’iscrizione – sul livello del mare, e mi diverto a immaginare un credente che abbia fatto quel percorso alla dura maniera del passato. Attraverso il Portale dei Monaci, esco sulla terrazza esterna e ammiro la prodigiosa e lunga prospettiva della Valle di Susa. Le immense vette del Piemonte si sovrappongono alle rovine del monastero caratterizzate dalla torre “della Bella Alda”. La leggenda narra di un tempo di guerre crudeli in cui una fanciulla da lì si gettò nel vuoto prima di venire abusata dai soldati e la purezza delle sue preghiere a San Michele e alla Vergine la deposero intatta sul fondo dell’abisso. Poiché ogni mito è anche una rigorosa favola morale, la storia ha anche una seconda parte in cui il desiderio di castigare i suoi paesani indussero la bella a ripetere il volo, quella volta con risultato peggiore.

Ammonito da Alda e dal suo peccato di vanità, affacciato al precipizio con Torino, il vero punto di origine, sull’orizzonte, mi tolgo l’abito da santo e l’idea del calvario per immedesimarmi in quelle storie. Quaranta chilometri in auto dalla città al parcheggio alla base della montagna. Seicento metri lungo il pendio su un sentiero asfaltato e nell’ombra del bosco. Altri 200 metri su un lieve pendio lungo una strada di pietra. Un piccolo sforzo aerobico e finalmente varco la soglia esterna del santuario: tanti passi, un riposino, altri passi, una breve sosta al negozio dei souvenir. Quindi, con un angelo spadaccino scolpito in ferro e un po’ d’aria di scorta, affronto una ripida scalinata verso la porta dell’abside. Le Grande Scalinata dei Morti e poi il Portale Zodiacale scolpito. Ancora una salita attraverso la tribuna che passa sotto i tipici archi gotici e da dove, prima di attraversare finalmente la soglia della Chiesa, si possono vedere i recenti restauri di quelle parti dell’edificio che il 24 gennaio del 2018 stavano per essere divorate dalle fiamme. Il fuoco della vita reale non è iniziato nella biblioteca né è durato tre giorni e tre notti, senza alcuno sforzo per salvare l’Abbazia, come raccontò Umberto Eco nella sua opera di finzione…

In poche parole, mi resta solo da confessare che la passione di Cristo non è ciò che mi ha portato alla Sacra di San Michele, ma la follia dei libri. Volevo essere per un giorno Fra Guillermo da Baskerville e il novizio Adso de Melk e muovermi sullo scenario storico di un romanzo che mi ha agitato la vita. E credermi un astuto Sean Connery e l’innocente Christian Slater e passeggiare nella autentica scenografia di un film che mi ha convinto che il cinema non tradisce sempre la letteratura. Anche a Il nome della rosa e nel suo autore medievalista avevo acceso una candela.
Alcuni giorni prima avevo visitato il Borgo Medievale del parco cittadino del Valentino. Imitazione rigorosa e, tuttavia, il suo fascino non ha mai smesso di farmi sentire un turista in mezzo a oggetti di scena del Trono di Spade. Durante il viaggio di ritorno dalla Sacra a Torino, ci prendiamo il tempo per una sosta ad Avigliana. Lì c’è un vero castello medievale, un vero vecchio pozzo e una vera chiesa del XII secolo, e la cosa più curiosa è vedere persone condurre una vera vita. Il pomeriggio finisce in fretta, ma faccio ancora in tempo a distinguere le vere rose seminate nel giardino di un’enorme dimora. Fa freddo, penso al testo che scriverò su questo viaggio, non importa per chi… Ricordo allo stesso tempo come finisce quel libro e decido che, sembrerà facile emulazione, trascriverò quella frase in latino: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemos.

V. DI UNA PASSEGGIATA MISTERIOSA NELLA CAPPELLA DELLA SINDONE E ALLA FONTE DEL DIAVOLO
La prima capitale d’Italia non detiene più il potere politico che ora appartiene a Roma. Né può vantare tanti grattacieli e abitanti come la sua vicina Milano, né ricevere la quantità di turisti che inondano Venezia. Ma gode del vanto stravagante di essere il nodo mistico del mondo, il campo di battaglia cruciale in cui l’anima dell’uomo gioca tra il Bene e il Male, la sede universalmente riconosciuta della più preziosa reliquia del cristianesimo e delle porte dell’Inferno.
Un sole di primavera misericordioso illumina il cielo, e ritengo sia giunto il momento di raggiungere Piazza San Giovanni. Sto pensando alla leggenda che attesta a Torino il crocevia di due triangoli magici: della magia bianca che la collega a Praga e Lione; della magia nera legata a Londra e San Francisco. Hanno attraversato questa città il tenebroso alchimista Cagliostro e il veggente Nostradamus, massoni e satanisti, cavalieri templari e pii pellegrini. Nelle immediate vicinanze ci sono edifici religiosi con architettura rutilante, ma nessuno di essi conserva un tesoro simile a quello del Duomo di Torino. Dopo la sobria facciata rinascimentale vedo una grande copia su tela de L’Ultima Cena – di nuovo Leonardo – e una sequenza di pannelli che raccontano la Sacra Sindone. È difficile credere che lo scorrere dei secoli ci abbia portato intatto fino ad oggi il lenzuolo che ricopriva il corpo di Cristo dopo la crocifissione, compresa l’impronta del suo sacro volto; ma la fede spiega qualsiasi miracolo: “Le strade del Signore sono inestricabili”. Senza rimanere troppo coinvolto e interessato a capire se si tratta di superstizione o di possibilità di salvezza eterna, proseguo verso la cappella e quasi sbatto la faccia contro le lastre di vetro che isolano l’urna con la Sacra Sindone. Mi allontano dal vetro, contemplo civilmente da lontano e, nel frattempo, la mia illusione di sentire il tessuto e certificare con i miei occhi va in frantumi.

Prefissata la tappa successiva dell’itinerario esoterico nella Chiesa della Gran Madre di Dio, mi dirigo verso il ponte sul Po raccolto nel cliché del turista che assolve a tutti i doverosi riti tradizionali di buon auspicio: strofinare il mignolo di un Cristoforo Colombo in bronzo in Piazza Castello e calpestare lo scroto del toro incastonato nel pavimento di Piazza San Carlo. Già di fronte alla cupola piatta e al portico greco-romano della chiesa, guardo la statua a sinistra e, in effetti, la mano della santa solleva un calice. In quella rappresentazione starebbe la chiave per l’ubicazione del Santo Graal, dicono. Ma non è mia intenzione soppiantare Robert Langdon per risolvere il mistero alla maniera del Codice Da Vinci, figuriamoci ora che si sta avvicinando il crepuscolo e il momento in cui gli angeli si nascondono e si liberano i demoni. Avanzo su Via XX Settembre alla ricerca della Stazione Porta Nuova. So che camminando la troverò, e succede: sotto la targa della Banca Nazionale del Lavoro, al numero 40, si trova la Porta del Diavolo, con la testa del Maligno affiancata da due orrende chimere in funzione di batacchio.

Aspetto la notte, con la sua luna piena, per ritornare in centro, questa volta prendendo la metropolitana per la Stazione Porta Susa. Già pronto ad affrontarlo – perché accontentarsi della sua faccia se posso vederlo per intero? – solo tre città al mondo hanno osato scolpire l’immagine dell’Angelo Caduto all’aperto e Torino è una di queste (le altre sono New York e Madrid). Sotto Piazza Statuto passa una corsia sotterranea e, dicono, ci sono tunnel scolpiti nelle viscere della terra fino a toccare proprio l’ingresso dell’inferno stesso. Sarà suggestione, ma un’umidità viscosa mi sale dai piedi e si aggiunge alla frescura notturna. In superficie vedo il Monumento al Traforo del Frejus, dedicato ai minatori sacrificati che hanno realizzato l’opera. Nella fontana c’è una piramide fatta di pietre accatastate attraverso cui si arrampicano figure umane con volti tormentati. Per contro, l’essere appollaiato sulla punta è alato, bello e agile, per niente minaccioso. Miracolosamente, la contemplazione di Lucifero mi placa e mi toglie il freddo dalle ossa.

VI. DELLA RICERCA PER TROVARE LA CASA DI CRISTIANO RONALDO
Alla fine di questo episodio scoprirò dove abita Cristiano Ronaldo. Nessuno sa dirmi dove vive esattamente il nuovo asso della Juventus, anche se la voce unanime gli attribusce una delle numerose ville da super ricchi sparse sulla collina di Superga, un’alta area che taglia la città oltre il corso del Po ed è visibile dal centro. Per arrivarci, io e mia cugina prendiamo un paio di autobus fino alla periferia di Torino e poi camminiamo fino alla Stazione Sassi, ai piedi della collina. Una coppia di quarantenni messicani e due gruppi di terza età, uno britannico e un altro galiziano. Un trio di giovani indiani e il duo cubano. Solo questo piccolo e universale raggruppamento di turisti, insieme ad alcuni locali isolati, si imbarca alle 10 sul pittoresco piccolo tram rosso, col tetto in legno, che risale la collina.

Faccio il viaggio immobile, con la testa fuori dal finestrino, scrutando tra gli alberi con lo zoom della telecamera, come se improvvisamente potessi vedere il vincitore di cinque Palloni d’Oro prendere il sole sul bordo della sua piscina o sdraiarsi su un balcone accompagnato dalla bellissima modella che fa da fidanzata di turno.
Tifoso di Messi e del Barcellona, e non dell’ex goleador del Real Madrid, la mia ansia è solo febbre da curiosità estrema. C’è un parco, in cima, e quando è il momento di scegliere tra le attrazioni, evito il percorso naturalistico e scelgo i siti della storia. Ammiro il frontespizio classicista e la cupola traforata da finestre in stile barocco della Basilica di Superga, dove sono sepolti i nobili di Casa Savoia.
Accanto a una colonna di marmo è scolpito in bronzo un uomo di aspetto fiero e simile ai Celti dei cartoni di Asterix (copricapo con piume sulla testa, lunghe trecce e baffi affilati) e una bestia schiacciata a terra, con peli ispidi e muso di lupo, ucciso dalla sciabola – con lama sorprendentemente spezzata – del guerriero. Dalla trama, si capisce che il monumento è stato dedicato dal popolo subalpino a Umberto I, il primo re d’Italia, e sospetto che la spada spezzata sia un’allusione al fatto che questo re è stato assassinato. Tutta la scena mi rimanda a un’espressione che qui ho sentito spesso: quando un nativo pronuncia “in bocca al lupo” e il suo interlocutore risponde: “Crepi il lupo!”. Lo scambio di battute è inteso come una sorta di incantesimo ottimista, uno scambio educato di desideri sul superamento di qualsiasi avversità. Uno stormo di piccioni e un corvo – grigio, ovviamente – attraversano il cielo.
Costeggiamo la maestosa chiesa fino alla sua parete posteriore, fino all’angolo in cui si verificò la “tragedia”. Dodici giorni prima era stato il 70° anniversario dell’evento e c’erano ancora molte prove del tributo che la folla porta lì ogni 4 maggio, dal 1949. Corone e bouquet di fiori, fotografie e biglietti, sciarpe e magliette davanti alla croce incisa sul pietra con i nomi in basso e l’immagine della squadra del Grande Torino, campione di cinque scudetti consecutivi, zoccolo duro della nazionale italiana, il miglior undici di quel tempo evaporò in un batter d’occhio, quando l’aereo su cui viaggiava si schiantò in questo preciso punto. Il club non sarebbe mai più riuscito a recuperare lo splendore di quel tempo, ma i suoi tifosi sono ancora quelli che portano l’emblema del toro della città stampato sulla casacca color vinaccia, quella preferita dagli umili di questa città, quelli che hanno pregiudizi sulla squadra costellata di stelle e vincitrice di otto titoli consecutivi in Serie A. Su un muro sulla riva del fiume ho perfino potuto vedere un graffito: JUVE MERDA.

Nonostante ciò, la mia ossessione per la stella della Juventine persiste. Yanara accetta con riluttanza la mia idea di pagare i cinque euro per salire la scala all’interno della Basilica. La scalinata a chiocciola è così stretta che, se qualcuno vuole scendere, deve aspettare fino a quando chi sale non arriva in cima. Si sale attraverso una cavità claustrofobica superando diversi livelli, e i gradini si susseguono a centinaia, senza pianerottoli. Immagino che nemmeno un atleta sarebbe in grado di raggiungere la cima senza fiatone. Faccio un’istantanea nell’ultima sezione per comprovare che la vista dall’alto restituisce un’immagine cilindrica e a spirali concentriche, simili al guscio sezionato di un fossile di ammonite.

Usciamo all’esterno su un balcone che circonda la cupola all’altezza del campanile. È un mezzogiorno luminoso e il cielo è così limpido che mi induce a bandire una convinzione sciovinista: esistono altri cieli blu come il mio tropicale. Anche se dal belvedere si ha un prodigioso panorama della città, mi concentro sugli edifici sparsi nel bosco circostante. Scelgo il più opulento e maestoso: un castello adeguato ai milioni dello stipendio e all’enorme ego dell’attaccante portoghese. Quella è la casa di Cristiano Ronaldo, mi dico con sicurezza delirante, e scatto la foto.

VII. DEL TANTO RUMORE SU LEONARDO DA VINCI E DEL PICCOLO AUTORITRATTO
Non era maledetta la circostanza di Da Vinci dappertutto, ma mi ha perfino portato a uscire per una pizza (perché mi è sembrato che gli italiano non bevano molto brodo). Tra le prime foto che ho scattato a Torino c’era già la locandina della mostra “Leonardo Da Vinci 1519-2019, Disegnare il futuro”, con la Mole sullo sfondo e il suo autoritratto sullo schermo di un cellulare tenuto nella mano sinistra.

Ho visto quella locandina mille volte, sui muri e sui cartelloni pubblicitari, sui fianchi di autobus e tram, ma non sono mai riuscito a capire dove si tenesse quell’evento che sapevo essere in corso. Sebbene il famoso artista sia nato in un paesino della Toscana in provincia di Firenze, era evidente che alla “febbre di Leonardo” in occasione della ricorrenza del suo 500° compleanno, non è sfuggita la capitale del Piemonte.
La passeggiata nei padiglioni del Salone Internazionale del Libro ha aumentato questa sensazione. Libri su Da Vinci e le sue macchine, sui suoi studi sugli uccelli e sull’anatomia umana. Album con la Gioconda e altri ritratti, con L’Ultima Cena e altri dipinti famosi. Da Vinci biografato e psicoanalizzato. Esaminato dalla neurologia sulla sua prodigiosa scrittura mancina e speculare. Romanzi e fumetti sulla sua vita e i suoi miracoli. Centinaia di esemplari che spiegano il genio a bambini e adulti. Un intero stand, “Leonardo in Tuscany”, in omaggio alla sua regione natale.
Nell’area del comune di Torino, nella Fiera, trovo un pieghevole che finalmente mi illumina. Riporta proprio quel disegno. La mostra si tiene a Palazzo Reale. L’autoritratto è spiegato dallo stesso Leonardo, una precisa dissezione della sua vecchiaia sotto l’assedio della morte.

Anche se si può arrivare a conoscere un’immagine vista e rivista all’infinito, nessuno perderebbe l’occasione di osservare il capolavoro originale. La “febbre” mi contagia e per nulla al mondo mi perderei questo dono del destino esclusivo di Torino, perché il pezzo è patrimonio della sua Biblioteca Reale. Tuttavia, passano ancora diversi giorni di frenetiche attività mentre l’ansia mi consuma perché ancora non arriva il momento tanto atteso. Con la mia partenza già fissata per il giorno successivo, in una mattina di freddo e pioggia e senza buoni auspici, Luigi Mezzacappa e sua moglie Grazia, anfitrioni di comprovata disponibilità a soddisfare le mie voglie, mi vengono in soccorso. Assecondano il mio ultimo capriccio e mi accompagnano al Palazzo Reale in Piazza Castello.

Un’emozione discordante mi assale, e mi ricorda la delusione della contadina per la visione della Monna Lisa autentica. Ma niente può essere amato o odiato se non è prima conosciuto, come disse proprio Da Vinci e iscritto all’ingresso della Galleria Sabauda, e comincio la visita. Un modellino della catapulta gigante di Game of Thrones per abbattere i draghi. L’opulenta e sensuale Leda in un disegno mitologico accarezza il collo del cigno. Schizzi su carta dei suoi caratteristici volti di madonne. La macchina volante costruita con ossa di uccelli. Le copie del Codice, quei quaderni in cui Leonardo raccoglieva le sue osservazioni su tutto. Indizi che è stato pioniere anche della meteorologia. I libri di sapere che raccolse nella sua biblioteca.
Alla fine, il frutto proibito della mia ossessione: realizzato in rosso, ridicolo nella sua dimensione (33 x 21,6 cm), ancora più piccolo perché la protezione ferma la vista dei visitatori a un metro di distanza. Sembra falsa l’istantanea che ho fatto con la minuscola stampa alle mie spalle. Ma la delusione non riduce il piacere di essere lì. Per conservare il ricordo materiale, all’uscita vedo il vecchio Da Vinci stampato su una borsina di tela da 5 euro. La prendo.

Rafael Grillo, 23 settembre 2019
Foto di Rafael Grillo

 

NOTE
(1) L’autore del racconto fa spesso riferimento alle parole “la maledetta circostanza dell’acqua dappertutto”. Si tratta di una frase tratta dalla poesia/racconto “La isla en peso” di Virgilio Piñera, autore, poeta, scrittore e saggista cubano nato a Cárdenas nel 1912. Nella sensibilità culturale popolare cubana la poesia in questione ha assunto carattere di straordinaria identificazione per descrivere la “cubanità”.

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