di César Gomez Chacon, Cubasì, 15 giugno 2022
Traduzione a cura di Centro Studi Italia Cuba
Quando il 24 febbraio il primo proiettile dell’esercito russo colpì il territorio ucraino, la Terra e la storia iniziarono a stravolgersi. E’ iniziato il conto alla rovescia più temuto.
Da più di tre mesi, nel mondo si parla solo della guerra in Ucraina. La fame e la sete non contano più, né il COVID-19 e le sue morti quotidiane, né il riscaldamento globale e le guerre etniche in Africa, né le guerre petrolifere in Asia, né i bombardamenti israeliani in Palestina, né le lotte tra destra e sinistra che ciascun anno miete migliaia di vite nelle caricature delle democrazie latinoamericane e in altri “angoli oscuri del pianeta”.
Ancora una volta, coloro che muovono i fili invisibili della politica mondiale hanno distolto ogni possibilità di riflessione, riducendola al minimo, alla semplice formula: o sei con la Russia o sei con l’Ucraina. La neutralità è stata condannata come eretica. E la verità è una bugia che si impadronisce dei media e delle menti. Chi gestisce al meglio i media e le informazioni, gestirà meglio le menti; le menti sono state indottrinate per decenni da Hollywood, CNN, Manga, giochi elettronici e una lunga e infinita lista di giornali, riviste, film, canali radiofonici e televisivi e siti Internet. Oh, un pugno agli Oscar è più importante e sarà più ricordato di tutti quelli che hanno vinto la statuetta quest’anno, tutti tranne Will Smith…
In prima persona
“Il giornalista dovrebbe evitare di scrivere in prima persona ciò che sta narrando, salvo in circostanze in cui è testimone eccezionale di un evento davvero significativo”. Pochi mesi dopo la laurea in URSS, nel 1983, ho conseguito il mio primo diploma post-laurea a Cuba, un approccio al giornalismo, insegnato da quell’icona della stampa cubana che era – è – Marta Rojas. I suoi consigli mi sono serviti per quasi 40 anni nell’esercizio della professione.
Oggi vado di prima persona, anche se non è proprio un reportage. Ma anche se lo fosse, Marta capirebbe perché devo violare, eccezionalmente, quell’assioma del buon giornalismo che ci ha insegnato con tanta enfasi.
In questi giorni bui della guerra tra Russia e Ucraina, le notizie, quelle false e quelle vere, uccidono anche me, uccidono i miei ricordi, soprattutto quelli belli. Adesso capisco che sono stato e sono testimone di come, a poco a poco, anno dopo anno, tutto è andato in pezzi. Rimane solo il dramma del popolo. Coloro che ieri a Kiev si chiamavano Aleksandr oggi sono chiamati Oleksandr. Una semplice vocale “A” cambiata in “O” può, a lungo termine, fare la grande differenza tra guerra e pace.
Il problema ucraino, parafrasando una canzone ironica di Joaquín Sabina, “è molto complicato, è molto complicato”. Cerco di spiegarlo attraverso le mie esperienze personali. Esporre onestamente la mia verità ha l’unico obiettivo di aggiungere un raggio di luce all’oscurità che ora incombe su quelle terre e persone che amo così tanto e da cui ho ricevuto così tanto amore.
La città stregata e il Volodya Club
Tra il 1978 e il 1983 ho studiato giornalismo militare in quella città dell’Ucraina occidentale, che aveva un nome in russo: Lvov, e uno in ucraino, poco usato in quegli anni: Lviv. Da poco ho scoperto che ha anche un nome in più… diciamo, “cosmopolita”: Lviv, che in questi giorni fa il giro del mondo tra notizie inventate e fatti reali, di persone che muoiono, di persone che fuggono, di persone tristi, senza una storia chiara e senza un futuro immediato.
È ancora difficile per me chiamarla in un altro modo, Lvov era allora ed è oggi una bellissima città. Situata a circa 70 chilometri dal confine polacco, l’architettura del suo centro ricorda Varsavia, Cracovia e altre città dell’Europa antica. Chiudo gli occhi e vedo ancora chiaramente le sue strade con cartelli in russo e ucraino. Se chiedevi qualcosa ai passanti, ti rispondevano indifferentemente in una lingua o nell’altra, e anche (soprattutto i più anziani) in polacco, perché fino al 1939 l’ucraina Lvov, prima russa, anche austroungarica, poi sovietica, era appartenuta per vent’anni alla Polonia.
Con i miei fratelli cubani abbiamo vissuto, amato e goduto appieno ogni angolo di quella città stregata, piena di chiese e piazze meravigliose, due immensi parchi forestali, con le rispettive birrerie a buon mercato; monumenti vecchi e nuovi, palazzi da sogno, donne insonni, brune dagli occhi azzurri e voci musicali, tram che stridevano le loro ruote di ferro su e giù per la collina; filobus che sprigionavano scintille dai loro cavi, che a volte scivolavano fuori dalle linee elettriche e si fermavano in mezzo alla strada acciottolata, fino a quando l’autista, con guanti enormi e pazienza da tartaruga, scendeva per collegare i circuiti, e tornavamo tutti felici al traffico e al trambusto.
E gli inverni… Giornate fredde, vodka e baci rannicchiati dentro una cabina telefonica; le primavere con i loro fiori sui balconi e nei giardini di tulipani o quei piccoli fiori bianchi che sbocciavano selvaggi sotto le ultime vestigia della neve; gli autunni con le loro foglie dai mille colori, le piogge e in due sotto l’ombrello; vacanze estive e avventure indimenticabili in altre città. E le gite domenicali al vicino lago, che era la nostra freddissima spiaggia, dove andavamo da Lvov con piccoli autobus affollati come se andassimo dall’Avana a Santa María.
E come dimenticare la ricchissima cucina ucraina, l’Oxana, la sua zuppa borsh e i suoi blinis dolci o salati, simili alle “arepas”, una prelibatezza da assaporare con le dita e colmare l’insaziabile fame degli studenti lungo la strada.
Ricordo come un simbolo il “Volodya Club”, un uomo anziano, la cui moglie aveva perso una gamba in un incidente ed era rimasta costretta a letto. Vivevano in totale umiltà. Erano di quegli ucraini gentilissimi, che pronunciavano russo con gli accenti dove dovrebbero andare la ge, “javarit” (parlare) invece di “gabarit”. Volodya per sopravvivere distillava in casa e vendeva clandestinamente il samogon, una specie di brandy molto più forte della vodka. Non so chi sia stato il primo di noi a scoprirlo, ma sono sicuro che non c’era un solo cubano a Leopoli (civile o militare) che non si fermasse a casa sua per portargli le bottiglie vuote dell’Avana Club rum che portavamo da casa, e in cui confezionava e vendeva ai suoi clienti il famoso “Volodya Club”.
Una scuola e i segreti militari
La Scuola Superiore Politico-Militare di Lvov (LBBPU, secondo il suo acronimo in russo), fu fondata nel 1939 dal governo dell’URSS e dall’allora Armata Rossa. Un anno convulso nella storia mondiale, quando Adolf Hitler attraversò con il suo esercito nazista il confine tra Germania e Polonia, e così iniziò la seconda guerra mondiale. Contrattaccando verso Occidente, Stalin inviò le sue truppe per assicurare all’URSS un confine occidentale più lontano da Mosca. Si diceva che Leopoli si fosse così ben conservata perché nell’estate del 1941, quando i nazisti infine attaccarono l’URSS, lì incontrarono poca resistenza; e poi, nel luglio del 1944, già sconfitti, i nazisti abbandonarono l’ultima città sovietica. Dicono di aver provato a farla esplodere, ma alla fine hanno perso tempo nella loro fuga disperata.
C’erano almeno due misteri che non ho mai scoperto nei miei cinque anni di vita a Leopoli: agli estremi del Parco della Cultura, molto vicino alla nostra scuola, c’era una collina, una specie di scogliera inaccessibile. Alcuni amici di Leopoli sostenevano – noi non siamo mai andati a verificarlo – che lassù c’era stato un campo di concentramento nazista, ma i sovietici, a differenza di altri paesi che hanno subito l’olocausto, non hanno trasformato questi luoghi in musei.
L’altro “mistero” era la grande fabbrica militare situata accanto alla nostra scuola. Correva voce come un segreto popolare che lì fossero prodotti elementi ottici per aerei da combattimento e altre armi speciali dell’esercito sovietico. La verità è che mai, in cinque anni, abbiamo visto uscire qualcosa da quell’immensa industria, della quale sentivamo solo l’eco incomprensibile dei suoi altoparlanti interni.
Alla LBBPU condividevamo aule, poligoni, insegnanti, feste, amicizia ed escursioni con soldati di vari paesi socialisti dell’Europa orientale e di alcune nazioni amiche in Africa, Asia e America Latina, per lo più ufficiali. Avevamo ottimi amici tra vietnamiti, mongoli, yemeniti, afgani, nicaraguensi e angolani. Anni dopo, molti di questi angolani furono nostri compagni di trincea nella guerra contro i razzisti sudafricani.
Più da vicino, abbiamo condiviso l’abitazione e le avventure familiari con i nostri pari, i fratelli russi, ucraini, tartari, bielorussi, uzbeki, azeri, georgiani, armeni con nomi e tratti diversi, ma alla scuola di Lvov erano solo cadetti sovietici. Con loro, durante le vacanze, facevamo delle scappate nelle loro case, in altre città e repubbliche dell’URSS. Ancora oggi, quando i laureati della LBBPU si incontrano all’Avana, ricordiamo con immenso affetto e gratitudine quelle avventure in luoghi lontani e belli dell’immensa geografia sovietica.
Amore e gratitudine eterni ai nostri professori, uomini e donne, alcuni dei quali vere enciclopedie nelle rispettive materie, che ci hanno trasmesso con devozione e rigore scientifico, a volte con grande serietà ma anche con grande affetto, la conoscenza del giornalismo, della storia universale e della L’URSS, la lingua russa, il marxismo, il leninismo in lingua originale e l’affascinante letteratura sovietica.
E abbiamo assimilato da loro quella solida conoscenza militare, dalle nostre stesse esperienze nel servizio, avallate dalle stelle sulle spalle e dalle molteplici medaglie sul petto dei nostri insegnanti in divisa. Solo dal loro accento, dai loro cognomi, o da qualche azzardata deduzione, di tanto in tanto si poteva intuire di chi fra loro fossero ucraini, russi, tartari o chissà cosa. Non è mai stato un fattore importante, ma la sua conoscenza ci è stata utile per tutta la vita.
Quello che mi ha impressionato di più è stato quell’insegnante di lettere il cui cognome era Osmolovsky. Tutti lo chiamavano “il professore”. Era un uomo grosso, sui sessant’anni, con la testa calva e rasata, parlava bassissimo, con voce da tenore e sempre vestito con un impeccabile completo scuro e cravatte discrete, che gli davano un’aria aristocratica e marziale. Era la solennità in persona. Durante le pause non stava mai in aula, percorreva i corridoi con lunghi passi e a testa alta, meditativo. Si diceva che ogni settimana gli pagassero un biglietto aereo, andata e ritorno Lvov-kyiv-Lvov, in modo che potesse insegnare all’Università della capitale ucraina, e altre volte doveva recarsi a Mosca, alle riunioni dell’Accademia della Lingua, di cui era membro.
Non l’ho mai visto sorridere, non ha mai imparato i nostri nomi. All’inizio di ogni lezione, Osmolovsky poneva sempre due o tre domande di verifica sulla lezione precedente. Pochi di noi osavano alzare la mano, per questo era solito indicare il prescelto in questo modo: “cadetto seduto in seconda fila, il terzo da sinistra a destra… sì, tu”. È stato come essere colpiti da un fulmine. Se tu non conoscevi bene la risposta e iniziavi a divagare, il “professore”, senza muovere un muscolo del viso, ti diceva solo, con la voce di Plácido Domingo: “Siediti”.
Posso giurare che non ho mai studiato tanto per affrontare le domande di Osmolovsky, ma ogni sua lezione su Cechov, Tolstoj, Dostoevskij, ogni poesia che leggeva, con quella voce e quello stile così teatrali… li ho chiari nella mente come fosse ieri che ero seduto nella sua classe.
Anche Leopoli aveva il suo lato oscuro. Racconti e storie su Stepan Bandera e il fascismo infestavano le strade della città. Bandera era come “colui che non deve essere nominato” nella saga di Harry Potter. Allo stesso modo, a volte, negli sguardi e nei gesti di certe persone, intravedevi i segni del nazionalismo di fondo. Più di una volta dovevamo interpretare come segno di rifiuto della lingua di Pushkin le risposte in ucraino da parte di persone che ovviamente parlavano correntemente il russo.
In più occasioni studenti stranieri, soprattutto arabi e africani, ma anche alcuni cubani, sono stati aggrediti fisicamente con marcata brutalità per le strade della nostra città. Quelli del collettivo 211, i cadetti militari cubani, hanno inscenato delle vere e proprie battaglie campali con quegli “hooligans” (criminali). E più di una volta sono venuti in nostro aiuto, fianco a fianco, pugno a pugno, i nostri compagni cadetti sovietici della LBBPU.
Una volta, seduti in un ristorante della città, tre o quattro di noi contavano i soldi per bere un paio di birre e uno spuntino con alcune ragazze che avevamo invitato. All’improvviso, qualcuno ordinò di mettere una bottiglia di champagne sul nostro tavolo. Il cameriere, su nostra insistenza, ci indicò discretamente un uomo seduto all’altra estremità della stanza e scrisse “KGB” su un tovagliolo. Scambiammo appena alcuni sguardi riconoscenti per l’omaggio. Pochi mesi dopo, durante un episodio di odio in cui un nostro collega fu duramente picchiato, rivedemmo quell’amico coinvolto nelle indagini. Era – abbiamo appreso allora – davvero un ufficiale del KGB incaricato di garantire la nostra sicurezza a Leopoli.
Crimea: freddo d’estate, sirene e carne a cubetti…
La Crimea, e Yalta in particolare, la bellissima località sul Mar Nero con le sue spiagge di ciottoli rotondi, donne con corpi da sirena e occhi da strega, meriterebbero un capitolo a parte in un libro che forse un giorno scriverò. Ci andavamo in treno ogni due estati, quando non andavamo in vacanza a Cuba. Non so chi fece il contratto – ben pagato – con i magazzini refrigerati che rifornivano la città di carne, yogurt e gelati vari. Lì diventammo veri lavoratori e amici delle persone più semplici del mondo: scaricatori di porto e operai addetti al manutenzione del tetto della grande struttura.
Dalla mattina presto al tardo pomeriggio, casse dopo casse, caricavamo o scaricavamo prodotti congelati, oppure realizzavamo miscele di cemento e teli protettivi per il tetto, che se ti toccavano la pelle pungevano e bruciavano come i peli della canna da zucchero. Festa di giovani muscoli, risate e sudore a 20 gradi sotto zero in quegli enormi frigoriferi. Tutto questo ci univa a quei brav’uomini senza altra nazionalità che la vera amicizia, con i quali la sera ci dividevamo bibite, chitarra e “dadini di carne”.
Ogni giorno, per recuperare le forze e risparmiare, noi cubani preparavamo nel nostro ostello una zuppa di varie carni, che cuocevamo a fuoco lento in un secchio di metallo. Lì, mentre tornavamo dal lavoro, tutti gettavano dal frigorifero quello che potevano rubare clandestinamente. Era una prelibatezza unica che abbiamo condiviso anche con i nostri amici portuali. A proposito, quegli uomini forti sono diventati le nostre guardie del corpo volontarie, nelle discoteche e nei concerti improvvisati di notte in Crimea, quando gli altri vicini del quartiere non capivano cosa stessimo facendo, tanti neri dalla lingua strana, determinati a conquistare le loro belle ragazze.
A Yalta, all’età di 18 anni, ebbi la mia prima grande sbornia e mi innamorai perdutamente di una bellezza dagli occhi chiari che mi rubava il respiro ad ogni bacio. Irina, figlia di contadini – che vendevano mele e pesche molto vicino al nostro ostello – parlava cantando e, come il vecchio Volodya Club, metteva anche bene l’accento dove doveva andare sulla “ge”. Con lei, sempre per la prima volta, nuotai nudo di notte su quella spiaggia senza sabbia. Pochi secondi dopo, dimenticai la prima impressione di immenso freddo che provai battezzando i miei piedi spaventati dei Caraibi nelle acque storiche del Mar Nero.
Oggi, quando le bombe cadono su quei luoghi amati, i miei fratelli russi e ucraini soffrono e muoiono, mi immergo nella nostalgia di ciò che non tornerà mai più. Lì diventammo dei veri sovietici, e ora è impossibile giocare alla neutralità.
SOS al mondo in difesa dell’Ucraina
Il tempo è passato e sono tornato tante volte a solcare il mare. Negli anni successivi alla mia laurea a Leopoli nel 1983 e fino a tempi relativamente recenti, sono tornato a Mosca e a Kiev ancora tante volte. Nel 1990 ho vinto un premio, come giornalista, che includeva uno degli ultimi viaggi turistici cubani in Unione Sovietica. Posso dire di aver visto da vicino la caduta del socialismo, la disintegrazione dell’URSS e la nascita di Russia e Ucraina come nuovi Stati indipendenti.
Approfondire e spiegare gli eventi di ogni tipo che hanno portato all’attuale guerra tra i due paesi “fratelli” è compito degli storici, dei filosofi, degli esperti di geopolitica e di altri specialisti che meritano tutto il rispetto. Sono, tuttavia, un testimone d’eccezione di come, in quella repubblica dove ho studiato e vissuto per cinque anni, sicuramente i migliori della mia vita, sia stato piantato il seme dei sentimenti antirussi, poi innaffiato come parte di un progetto precostituito da terzi, opportunamente mescolato al virus dell’antisovietismo.
Del crollo dell’URSS conservo due ricordi tremendi di quel viaggio nel 1990. Il primo è Gorbaciov che gridava, implorando di essere ascoltato nel mezzo di una sessione del Parlamento: “Compagni, compagni, compagni!!!”, e nessuno lo ascoltava. Il secondo mi riporta a pochi minuti prima del mio ritorno all’Avana, quando presi una copia del quotidiano Pravda, l’organo ufficiale del Partito Comunista dell’URSS, da leggere sull’aereo. Anche nell’editoriale in prima pagina, a lettere maiuscole, c’era un grido assordante: “SOS METRO!”. La grande opera dell’architettura sovietica stava morendo a causa della mancanza di volontà politica e di finanziamenti statali per salvarla. Tutto stava andando a rotoli.
Soffrii la caduta definitiva dell’URSS nel dicembre 1991 quasi dal vivo e direttamente, a 9.550 chilometri di distanza, nella redazione del quotidiano Granma dove lavoravo all’epoca. Non avevano ancora inventato i social network, né ricordo telefoni satellitari o televisioni internazionali alla portata dei giornalisti cubani. Ma eccomi lì, quel pomeriggio, quando Pedro Prada, uno di quei fratelli, compagno di studi a Lvov, poi corrispondente del giornale di Mosca, ci informò di tenere d’occhio il telex, perché avrebbe inviato notizie estremamente rilevanti. Pochi minuti dopo, quando quel brutto e rumoroso ordigno cominciò a vomitare la striscia di carta stampata, lessi stupefatto: “hanno appena annunciato che stanno per ammainare la bandiera rossa del Cremlino, sto andando lì”. Non dimenticherò mai quel momento.
Da uno di quei viaggi a Mosca negli anni della post-perestrojka, riemerge ancora l’immagine di una signora sulla cinquantina, snella e stilizzata, che in gioventù doveva essere stata estremamente bella. Era vestita con il tipico costume russo, ma con colori chiarissimi e impeccabilmente sobria. I suoi capelli, di un grigio brillante, erano raccolti in una crocchia perfetta. Non indossava un solo gioiello. Cantava come uno spirito celeste quella melodia triste che si rifletteva sul suo volto. Intanto, all’ingresso “Viale Lenin” della metropolitana, di tanto in tanto, un passante commosso lanciava monete nella cassetta ai suoi piedi. Per molto tempo ho pensato che mi fosse riapparso in pieno sole il fantasma dell’Unione Sovietica.
“Sai cosa facevo durante la Perestrojka?”, mi avrebbe detto molti anni dopo, una mattina mentre mi portava con la sua Porsche a sessanta miglia orarie in un lungo, largo e deserto viale di Mosca, quell’amico russo a cui finalmente la vita aveva sorriso grazie al suo talento di produttore cinematografico: “Beh, ho rubato borse e portafogli ai turisti in Piazza Rossa”. Non era certo per la velocità dell’auto che, al riflesso delle tante luci di quel viale, vidi i suoi occhi inumiditi dall’emozione.
Fu così, a poco a poco, che un giorno mi resi conto che i sovietici non avevano tradito Cuba allora: avevano tradito se stessi e questo costò loro molti decenni di stenti e grandi sofferenze. Alcuni navigarono con fortuna e malizia nel fiume in tempesta, molti altri arrivarono a malapena esausti sulla riva, altri vi affogarono senza speranza.
“Sai come è successo tutto ciò, come è stata distribuita l’immensa ricchezza dell’URSS quando è passata dal socialismo al capitalismo?”, mi chiese una volta un altro di quei brillanti amici che aveva vissuto il disastro. “Facile, fatti l’idea che quando una pignatta si rompe per un compleanno, quelli che ci sono sotto, pochi, afferrano la maggior quantità di caramelle e cioccolatini con entrambe le mani; gli altri raccolgono ciò che rimbalza ai loro piedi; i più lontani si chinano e riescono a raggiungere ciò che sta sotto i mobili; agli ultimi non arriva nulla, e la maggior parte non è stata nemmeno invitata o non ha mai saputo che c’era un compleanno”.
L’ambasciatore che cambiò lingua
Nel 1990 ebbi l’opportunità unica di lavorare come traduttore con i primi bambini di Chernobyl e i loro parenti, che arrivarono al campo dei pionieri di Tarará per curare le diverse malattie causate dalla catastrofe della centrale termonucleare che sconvolse il mondo nel 1986. Personalmente, oltre a sostenere il gesto di solidarietà di Cuba, per me è stato un po’ come restituire qualcosa dell’amore che ricevetti durante i miei cinque anni di studi a Leopoli.
Era il 1992 quando seppi che l’Ucraina, già Stato indipendente, avrebbe aperto per la prima volta la sua ambasciata a Cuba. Giorni dopo incontrai Aleksander (Sasha) Gnedyk, il giovane inviato di Kiev che aveva l’arduo compito di assicurare le condizioni per l’apertura della sede diplomatica all’Avana e l’arrivo del nuovo ambasciatore dal suo Paese. Ci vedemmo spesso, in diverse occasioni siamo stati insieme con le nostre rispettive famiglie. Sasha e io parlavamo sempre in russo, la sua lingua madre. Per me è stato il modo migliore per mantenere attiva quella lingua che adoro. Nelle nostre conversazioni, i miei ricordi di Leopoli tornavano spesso e ricordo di aver notato allora che il mio buon amico non mostrava molto interesse quando commentavo con spiccata passione quelle terre lontane dell’Ucraina occidentale.
Una volta inaugurata l’ambasciata e con l’arrivo del nuovo capo missione, Aleksandr Gnedyk terminò il suo lavoro all’Avana e tornò a Kiev. Ci salutammo con un grande abbraccio. Un paio d’anni dopo, uno spagnolo mi disse che l’ambasciatore ucraino a Madrid mi aveva inviato cordiali saluti. Era Sasha!
Passarono altri cinque anni finché una mattina fui sorpreso da una telefonata: “Il signor César Gómez? Aspetta un momento, l’ambasciatore ucraino vuole parlarti”… Dall’altra parte, in perfetto spagnolo cubano, sentii: “Ehi, fratello, che si dice?”.
Quello stesso pomeriggio ci incontrammo di nuovo e, in mezzo a vodka e cioccolatini ucraini, ci raccontammo le nostre vite. Aleksandr aveva un bell’aspetto, un po’ più robusto, e sulla sua testa apparivano i primi capelli grigi. Il nuovo ambasciatore di Kiev all’Avana era sempre la stessa persona, buona e affabile che avevo conosciuto più di cinque anni prima.
Ma… man mano che la nostra conversazione procedeva, mi resi conto di un dettaglio importante. Gli parlavo come al solito in russo, ma Sasha mi rispondeva in spagnolo. Dopo la prima mezz’ora, sospinto dai drink e con la solita sincerità, gli chiesi: ehi Aleksandr, puoi parlarmi in russo così alleno la mia seconda lingua? Il mio amico abbassò il tono di voce e un’ombra apparve nei suoi occhi dicendomi: “César, sono l’ambasciatore dell’Ucraina, non posso più parlarti in russo, inoltre… il mio nome ufficiale ora è Oleksandr, anche se per te io sono ancora Sasha”…
SOS in un’altra metropolitana
Nel 2010 e nel 2011 tornai come giornalista a Mosca e a Kiev. La capitale russa brillava di troppe luci e di così tante macchine da rendere impercorribili i suoi immensi viali. La metropolitana di Mosca non era solo stata salvata, ma aveva anche aperto nuove stazioni, non certo più lo splendore di quelle classiche, ma con la sobria bellezza e la pratica utilità dei tempi moderni.
Un pomeriggio d’inverno, mentre aspettavamo da più di un’ora in una fila interminabile di macchine su quel famoso viale della capitale russa, uno dei tanti amici di quegli anni e diventato ricco, mi disse all’improvviso, indignato per il tempo perduto: “Vedi tutto questo?”, si riferiva alle migliaia di auto delle marche più diverse, “Bene, tutto questo è una finzione, un miraggio. Non si produce nulla in Russia, lo compriamo da altri con il petrolio e il gas del nostro suolo. Stiamo impegnando il nostro futuro”.
Una di quelle sere, un gruppo di cubani andarono in treno da Mosca a Kiev, alla fiera annuale del turismo. Il varco di frontiera fu patetico: mi ritrovai improvvisamente in uno di quei convogli militari della seconda guerra mondiale. Soldati di frontiera ucraini puntavano ostili le torce sui nostri volti e sui passaporti, controllavano scrupolosamente ogni angolo sopra e sotto il treno. Nessuno ci diede il benvenuto nel Paese.
Lo stesso giorno del mio arrivo nella capitale uraina dovetti prendere la metropolitana. Una folla come una mandria di bufali mi strinse così forte che riuscivo a malapena a respirare. Cercai di proteggere la mia valigetta stringendola al petto. Quando uscii scoprii che il mio portafoglio era stato rubato dalla tasca posteriore dei miei pantaloni, il ladro aveva fatto scivolare chissà come la sua mano sotto il mio soprabito.
Il giorno dopo qualcuno chiamò a casa Svieta, l’amica dove alloggiavo. Disse di aver trovato il portafogli con i miei documenti e di volerli restituire. Sospettosa, Svieta interrogò l’uomo finché non fu sicura che non fosse una trappola. Ci incontrammo il giorno dopo in una vicina stazione della metropolitana.
Scendendo dall’ultimo vagone, come avevamo concordato, fu facile identificarlo. Così come aveva avvertito al telefono, l’uomo indossava la sua uniforme da lavoratore della metropolitana. Era piuttosto anziano, con la faccia rugosa, i capelli bianchissimi e il linguaggio lento. In un secondo capii che non poteva essere un ladro o un truffatore. Mi mise subito in mano il portafogli, ovviamente senza soldi, ma con tutti i documenti e diversi pezzi di carta con i miei appunti, compreso il numero di telefono di Svieta grazie al quale mi localizzò.
Senza darmi il tempo di ringraziarlo, mi chiese di punto in bianco: “Cubano, di Cuba, di Fidel Castro?… Dimmi come vanno le cose laggiù, qui non c’è più socialismo, le cose sono cambiate”. Ci abbracciamo in silenzio. Non ricordo il suo nome, ma non dimenticherò mai quello sguardo triste, né quello che provai quando mi disse la sua età. Quel nonno e io eravamo nati lo stesso anno.
La metropolitana di Kiev in quei giorni del 2010 utilizzava i vecchi vagoni dell’era sovietica. Sembrava che negli ultimi vent’anni nessuno avesse dato loro nemmeno una mano di vernice, erano tappezzati di migliaia di manifesti pubblicitari. Di notte erano quasi al buio e troppo rumorosi. Le stazioni, come i treni, mostravano il segno del totale degrado.
Chiamai Sasha Gnedyk quando arrivai a Kiev e decidemmo di incontrarci. Era un’altra persona, era anche invecchiato e non indossava più quegli abiti con le belle cravatte. Scoprii che il nuovo governo lo aveva escluso dal Ministero degli Affari Esteri e che aveva progetti personali legati al commercio con Cuba, e aveva qualche problema cardiaco di cui non mi fornì dettagli. Parlammo di nuovo in russo e ci salutammo con tristezza, come se entrambi ci fossimo resi conto che non ci saremmo più visti.
In questi giorni, per scrivere queste righe ho cercato senza successo il suo nome su Internet. Non l’ho trovato (né in russo, né in spagnolo, né in ucraino) nemmeno quando ho provato a cercarlo per il suo incarico come ambasciatore all’Avana, o a Madrid. Mi manca quel brav’uomo che ha rappresentato così fedelmente il suo paese. Darei qualsiasi cosa per avere buone notizie da lui.
Intanto, il pianeta è caduto nell’ultima trappola di chi odia e distrugge, senza che nessun giornale abbia finora pubblicato in prima pagina un enorme SOS MONDO con tre punti esclamativi…
Due canzoni sui due lati delle trincee in difesa dell’Ucraina
Arrivarono all’Avana nel 2013. Conobbi Oleg (“Fagot”) Mijailiuta e Oleksandr Fozzi Sidorenko perché un amico comune di Kiev mi chiese di aiutarli a filmare due videoclip a Cuba per il loro gruppo THMK (Baile en la Plaza del Congo ), uno dei più famosi gruppi locali di rock e pop ucraini. Oleg e quest’altro Oleksandr-Sasha sono da anni le principali voci della famosa band. A quei tempi erano una coppia di giovani che avevano quasi 35 anni. Allegri, scherzosi, aperti, ma anche molto seri e professionali nel loro lavoro.
Trascorremmo giorni spettacolari all’Avana. Tutte le notti, fino al mattino, andavamo nelle location, prendevamo i contatti necessari e iniziavamo a girare i filmati, più volte bagnati dalle immense onde del malecòn della capitale in quell’inverno cubano. Non perdemmo un secondo di tempo. Sia loro che il resto della piccola troupe cinematografica parlavano in ucraino, ma con me comunicavano sempre in russo. Era la nostra lingua di lavoro per la nostra comprensione reciproca.
Dopo ogni dura giornata ci godevamo un po’ le sere e le notti dell’Avana, ma il giorno successivo eravamo pronti per filmare quelle bellissime scene, sfumate dall’alba al fondo della baia della capitale. Una delle clip, che sarebbero state presentate in anteprima poco dopo a Kiev, era per una canzone il cui ritornello spiegava la ragione del suo viaggio a Cuba: “Finché Fidel è ancora vivo, continuerò a essere un ragazzo”. Nella clip Sasha gioca a calcio con un gruppo di ragazzi per strada. Qualcuno mi ha detto che è stato anche un ottimo atleta.
Con Sasha e Oleg parlammo di tutto, musica e politica. Confessarono di essere seguaci di Yulia Timoshenko, una delle loro fan più fedeli. Timoshenko (allora non lo sapevo) fu soprannominata dai media la “Giovanna d’Arco della Rivoluzione Arancione” del 2004. È stata Primo Ministro dell’Ucraina dal 2005 al 2007. Adesso l’ho cercata su Google, è ancora in politica ed è considerata un fervente precursore dei sentimenti anti-russi, in primis contro chi vive nell’est del suo Paese.
Onestamente, dieci anni fa non percepivo chiaramente alcun sentimento eccessivamente nazionalistico in quei bravi ragazzi, con i quali ho mantenuto i contatti su Internet per diversi anni. Oleg è tornato all’Avana nel 2016 per il concerto dei Rolling Stones. Ci salutammo con affetto, ci vedemmo solo un pomeriggio, quando mi diede gli ultimi album del gruppo e quei due clip che producemmo insieme. Quella stessa sera dovevo andare in provincia per lavoro e persi l’occasione di godermi insieme quel grande evento musicale che fece il giro del mondo.
Sono passati anni e abbiamo perso i contatti. In quei giorni di marzo di quest’anno, quando la guerra si è intensificata vicino a Kiev, sono corso su Facebook per cercare di nuovo Sasha e Oleg. È stato facile e triste trovarli: sono uguali e sono cambiati. Il compositore, cantante e calciatore è diventato un volontario e si dedica alla pubblicità per l’acquisto di caschi, pettorine e altre attrezzature militari per respingere le “truppe di occupazione” russe.
Oleg-Fagot, invece, pubblica quotidianamente immagini video in cui lo si vede in uniforme mimetica, in una jeep modernissima, mentre pattuglia le strade della sua città o posa accanto a un veicolo dell’esercito russo distrutto. All’inizio della guerra portava un semplice AKM sovietico, più recentemente cammina con una nuova, impeccabile uniforme, e porta un bizzarro fucile d’assalto, quasi della sua taglia. Mi ricorda un soldato di Star Wars.
Entrambi, davanti alle telecamere, esortano i loro seguaci ad affrontare l’invasore. Oleg di solito canta, parla e trasmette le sue immagini dal vivo in diretta mentre guida la jeep mimetica attraverso Kiev. È facile rendersi conto, a tre mesi dall’inizio del conflitto, che non hanno ancora visto da vicino il primo proiettile nemico.
Il gruppo THMK ha portato al top della popolarità oggi in Ucraina la loro canzone “Mamo” (Mamma) e un video clip che fa piangere:
Mamma, mamma
Non preoccuparti, ti scrivo
(…)
Di’ a papà che suo figlio è andato là dove la luce si divide in bianco e nero
(…)
Là dove la terra è diventata rossa
No, non piangere, che nessuno ha fatto niente
(…)
è passato un po’ di tempo dall’ultima volta che abbiamo giocato a fare gli eroi
Non esistono affatto se li confrontiamo con te
mamma, mamma non preoccuparti che ti scriverò
Mamma, mamma, lì dove starò, è meglio tacere
(…)
In guerra è meglio tacere…
In alcune occasioni, perché Oleg, Sasha e i loro amici di THMK sappiano che li seguo e mi preoccupo da qui, ho messo sotto i loro post su Facebook i miei piccoli simboli di “emozioni”, principalmente “mi interessa”, “sono stupito” oppure “mi rattrista”. Il più delle volte rimango in disparte, tra perplessità e incertezza. Non commento mai. Ma né Sasha né Oleg – ve lo assicuro – sono fascisti, né ultranazionalisti… So che sono animati dai più sinceri sentimenti patriottici, quelle passioni sotto le quali sono cresciuti e vivono da più di tre decenni. Sono solo dei bambini sulla quarantina intrappolati in un limbo di grandi e piccole emozioni.
Povera Ucraina!
Non so come posso essere neutrale. Come posso essere contro la mia Ucraina, se è lì che venni al mondo per la seconda volta. Non posso augurare del male ai miei cari fratelli e nipoti che là soffrono, sotto le bombe incrociate e le menzogne corrotte dall’odio. Non riesco a smettere di preoccuparmi per i miei amici e per i miei “pazzi” rocker THMK.
Ma non posso e non sarò mai contro la Russia – migliore o peggiore erede dell’URSS – perché nonostante i rimpianti non potrò mai violare i miei più profondi sentimenti sovietici (fantasmi gioiosi e tristi che ancora aleggiano, perduti e senza ritorno, su quelle terre eurasiatiche). E perché anche lì ho dei fratelli, i miei amati insegnanti, e i miei tanti e sempre fedeli amici.
Quando ho aggiunto intenzionalmente al titolo le parole “In difesa dell’Ucraina”, non avevo intenzione di ingannare nessuno, tanto meno i miei amici ucraini, quelle belle ragazze di quel tempo, le più belle nonne di oggi, che hanno sposato i miei compagni di classe e i miei fratelli di studio, e che ancora vivono a Cuba con il loro infinito amore per il nostro Paese e per la terra dove sono nati. Così hanno educato i loro figli e nipoti, e oggi tutti soffrono di questa guerra che non ha parole.
Nel 2014, quando la nostra scuola militare per politici di Lvov celebrò il suo 75° anniversario, io e un altro laureato cubani fummo invitati alle celebrazioni che si svolsero in tutta solennità nel Teatro dell’Esercito Russo a Mosca. Apprendemmo che qualcuno pagò – ancora oggi non so chi – i nostri costosi biglietti aerei di andata e ritorno L’Avana-Mosca-L’Avana.
Dell’incontro con chi non vedevo da 31 anni potrei scrivere tantissimo. Voglio solo ricordare il momento più emozionante, quando dagli altoparlanti del teatro gremito per lo più da ufficiali russi, tra cui diversi generali, sentimmo dire: “Diamo il benvenuto in modo particolare ai nostri laureati dell’esercito ucraino, che hanno fatto molta strada per essere con noi oggi”. Tutti in piedi, applaudimmo con un’ovazione quegli uomini coraggiosi. In quello stesso iniziò la guerra nel Donbas.
Queste sono le mie esperienze personali. Sono l’unica cosa che posso offrire a questi due popoli fratelli. Scrivo dal profondo di un cuore ferito. A Cuba ce ne sono migliaia, così. Recentemente, un padre e un nonno di una di quelle famiglie cubano-ucraine, parafrasando un noto adagio mi hanno detto: “Povera Ucraina, così lontana dall’Europa e così vicina agli Stati Uniti!”.
Difendere l’Ucraina oggi, significa bandire per sempre da lì il germe del fascismo e del falso nazionalismo. Significa che i paesi cosiddetti “occidentali” che per più di trent’anni hanno inoculato al nobile popolo ucraino il veleno dello sradicamento e dell’odio antirusso, dovrebbero aiutarlo con risorse finanziarie e con sincerità con lo stesso entusiasmo con cui in questo istante gli inviano le armi della morte.
Significa che l’Ucraina deve smettere di essere un laboratorio di armi chimiche e biologiche delle potenze egemoniche più oscure del mondo e rimetta in produzione il granaio dell’Europa per il benessere di tutti, ancora una volta. La sorella Russia saprebbe come fare e potrebbe benissimo aiutarla a raggiugnere l’obiettivo.
Significa che il grande popolo ucraino deve scuotere le proprie radici e deve riuscire a trovare governanti onesti, che rappresentino tutti e garantiscano il radioso futuro che meritano.
Significa che da Kiev si deve smettere di guardare con sospetto all’Oriente e con spirito da mendicante all’Occidente.
Preferisco terminare questo articolo come quei film sovietici sulla Grande Guerra Patriottica che vedevamo ogni giovedì al Teatro della Scuola di Leopoli, noi cadetti cubani, russi e ucraini… C’era sempre qualcuno con una fisarmonica in trincea.
In questi giorni si sente anche in Russia un aspro e bellissimo canto di guerra: “In campo con il fratello Kolya”.
(…) Hai dimenticato fratellino Kolya, hai dimenticato che io sono tuo fratello?
Hai dimenticato tutto quello che abbiamo letto insieme
Che con lo stesso fazzoletto ci soffiavamo il naso?
(…)
Siamo entrambi, fratello Kolya, sulle rive del Dniepr.
Tu a sinistra, io a destra. Perché è così?
(…)
Scusami, piccolo Kolya, ma non potevo starne fuori.
Questa è anche la mia terra, fratello, qui giacciono mio nonno e mia madre.
(…)
Che cosa abbiamo fatto, fratellino,
per essere ora su lati opposti?
(…)
Siamo sdraiati nel campo, fratello Kolya: corpi lacerati,
(…)
Carri armati devastati, pomo d’Adamo strappato
E una pala di contadino spunta dal mio petto.
(…)
Oh madre-Ucraina, come può essere così?
Per molto tempo leniremo questa ferita,
(…)
E nel cielo azzurro, fratello, due bianche colombe
sono le nostre anime che precipitano amaramente.
Che cosa abbiamo fatto, fratellino?
Forse il Signore ci lascerà andare e ci perdonerà…
Articolo originale: https://cubasi.cu/es/noticia/dos-canciones-ambos-lados-de-las-trincheras-en-defensa-de-ucrania-iii-y-tal-vez-ultima-parte