di Enrique Ubieta Gómez, Granma, 2 gennaio 2023
Un compatriota incredulo mi dice che il fidanzato di sua figlia, adolescente, è un ragazzo molto intelligente. Suo padre ha tutto (non chiedo cosa intenda per tutto, ma presumo: soldi). Non studia, non gli interessa, quindi compra gli esami e basta. Vuole avere una laurea. Anche se l’affermazione mi colpisce, cerco di non soffermarmici. Davvero credi che sia molto intelligente? Sì, sta imparando l’inglese per quando arriverà negli Stati Uniti; lì farà qualche lavoro fino a quando avvierà una sua attività. È un mago dei social network. Ha pensato a tutto. Ci sa fare con tutto: al suo paese ha tutto (denaro, una cosa nessuno ha di troppo, e grandi idee su come “riuscire” lì). Riuscire significa ancora una volta – come nelle pagine social della stampa sistemica – avere una vita materiale agiata.
Nella mia giovinezza, la maggior parte degli adolescenti aspirava a studiare all’università: i figli dei professionisti, ovviamente, perché le loro famiglie davano molto valore al prestigio che conferisce la conoscenza; i figli dei lavoratori delle città o delle campagne, perché i loro figli potessero realizzare i sogni che loro non avevano potuto realizzare. La Rivoluzione ha messo in cielo le aspirazioni e i progetti di vita, e i più umili, i padroni della Rivoluzione, potevano saltare e toccarlo. Alcuni adolescenti e giovani, a volte figli di professionisti, oggi pensano che studiare sia una perdita di tempo, che sia meglio trovare un lavoro attraverso il quale infilarsi nel Primo Mondo (se sono già professionisti, non gli importa di rinunciare all’esercizio di ciò che hanno imparato) e tracannare le sue ricchezze. Li ho conosciuti: vestono alla moda, e il loro aspetto, i loro modi, non rivelano le loro enormi lacune spirituali. Possono ancora saltare e toccare il cielo, ma preferiscono muoversi raso terra, pensano che sia più veloce così. Sono ribelli contro la ribellione. Il cielo, ovviamente, sembra essere immateriale; la terra, invece, è piena di pepite d’oro.
Ricordo sempre una massima di mio padre: per essere felici non è necessario essere dei professionisti, basta amare il lavoro che si è scelto. Sulla Terra c’è un posto preciso per ogni essere umano; il luogo, la professione o il mestiere che possono renderlo utile e felice. Non tutti lo trovano, ed è giusto cercarlo. Ma non è di questo che si tratta. La felicità che io conosco non è avvolta da lenzuola di seta. Quando i sogni di questi ragazzi non superano, in altezza, il tetto delle loro case, anche se si estende in orizzontale, qualcosa non va. Abbiamo fatto qualcosa di sbagliato. E non è che le cose siano così scontate: l’equilibrio tra l’essere e l’avere deve mantenere un certo equilibrio, anche se in un mondo pensato per il consumismo l’avere pesa molto di più. Ma lo squilibrio non è solo dovuto alla crisi economica e morale che l’umanità sta attraversando -pandemia, guerra, sanzioni, disprezzo della verità e della giustizia – aggravata com’è naturale in un Paese povero e vittima di un blocco, senza grandi risorse naturali, piccolo David che sopporta senza arrendersi l’assedio di Golia; non è solo che è aumentato il peso materiale, è che è diminuito il peso spirituale necessario per il contrappeso. Le cause dello squilibrio non sono solo economiche.
All’improvviso, le valvole della società si sono casualmente separate (letteralmente): una pandemia che minaccia la vita di tutti, un tornado o un uragano, un’esplosione in un hotel in restauro o un incendio nei serbatoi di petrolio fanno sì che la solidarietà spontanea dei giovani fugge dai freddi calcoli materiali, quegli stessi giovani che sembravano indifferenti. La società ha delle riserve, ma pretende che le mobilitiamo; il più difficile degli eroismi, quello quotidiano, ha bisogno di un incoraggiamento permanente. Lo so, senza mangiare o vestirsi non puoi vivere, ma credo che lo stesso valga anche senza atti eroici che trascendano il tornaconto, senza orizzonti lontani ma visibili verso cui remare forte. Emergono gruppi di giovani imprenditori per la solidarietà, affamati non di cibo (anche se mangiano male), ma di Rivoluzione. Ribelli contro l’apatia.
Se c’è stato qualcosa di sano, paradossalmente, è stata la mancanza di salute. Ci ha fatto confidare in un’avanguardia giovanile che vola più alto, che assomiglia più all’avanguardia dei loro genitori (non ai loro, di genitori), all’avanguardia di tutte le epoche precedenti, piuttosto che alla loro epoca e ai loro contemporanei. Non formalmente, non nell’esteriorità, nel modo di vestire, di parlare, di comportarsi, ma nell’essenziale. L’impero transnazionale cercherà di dissuaderla dal suo “errore”, di contrapporla alle istituzioni rivoluzionarie, di rinchiuderla nella prigione del “ribelle” per strapparle fino all’ultima goccia di motivazione. Ma è nostra, è necessaria, e per soccorrerla dobbiamo la vita.
Intanto, la pandemia rivitalizza antichi valori: per mesi abbiamo applaudito, alla finestra o alla porta delle nostre case, quei medici e infermieri che prima guardavamo con indifferenza, ma che rischiano la vita per noi. E mentre l’autobus – che li portava dall’aeroporto quando arrivavano da un qualche Paese lontano non per accudire noi, ma rischiando per altri popoli – attraversava quartieri umili, gli abitanti, carenti di tante cose (ma non di tutto), stringevano i pugni sul petto in saluto, o promessa, orgogliosi di loro (figli, fratelli, genitori, vicini).
Abbiamo scoperto con sorpresa che gli scienziati cubani, prima invisibili, rinchiusi nei loro laboratori per giorni e notti, sono in grado di creare vaccini, nei Paesi del Primo Mondo riservati al profitto delle multinazionali. Spuntano canzoni e video che li esaltano e che toccano le corde dell’anima nazionale. Vediamo che ci sono tanti ingegneri, matematici e informatici giovani che inventano soluzioni, che superano i limiti del possibile. E in piena commemorazione dell’anniversario, vediamo che mezzo secolo dopo – in piena crisi materiale e di valori – ci sono ancora trovadores che non si vendono al mercato, che vanno di piazza in piazza e ci accompagnano con le loro canzoni ribelli. Ci sono bambini che ora sognano di essere dottori o scienziati o ingegneri o trovadores. Sono germogli di un mito che rinasce, ancora incerto. Facciamolo crescere, anche se i nostri corpi dimagriscono.
In questo nuovo anno, Cuba risponde come ieri: Patria o Morte! Ma a differenza di allora, non ci sarà tregua nella lotta per la vita, quella che abbiamo scelto; non ci sarà sosta nella lotta per la prosperità socialista e la libertà che desideriamo, per l’indipendenza che abbiamo conquistato e che difendiamo, perché a Cuba ci sono giovani ribelli come i loro predecessori, contro l’apatia, e sono disposti a portare fino in fondo la promessa fidelista: Vinceremo!
Articolo originale: 2023: rebeldes ante la apatía